Marina (Claudia Pandolfi) arriva a Macugnaga per passare un mese con il figlioletto di neanche due anni in una villetta di proprietà di Manfred (Filippo Timi), guida alpina, un montanaro più granitico del Monte Rosa. Lei alle prese con i pianti del bambino che scandiscono la sua difficoltà ad affrontare i cambiamenti imposti dalla maternità. Lui ossessionato da una misoginia alimentata da un doppio abbandono: la madre, da piccolo, la moglie, da adulto, con i figli al seguito. «Un incrocio di solitudini» sostiene la regista «due mondi lontani e diversi che ho raccontato usando pochissimo le parole, come nella scena delle due funivie che vanno in direzioni opposte». Proprio la scena che, durante la proiezione, ha dato il via alle prime risatine. «Una scena che alcuni hanno amato, altri no. È un film fatto di momenti emotivi complessi. Penso ci sia bisogno di coraggio ad esprimerli e posso capire che non tutti siano pronti a coglierli. Soprattutto ad un festival».
Sarà la coincidenza con la presentazione in Controcampo italiano del film ''Maternity blues'', ispirato ad alcune storie di madri che hanno ucciso i loro figli, e la suggestione delle montagne piemontesi, ma in molti hanno visto un collegamento tra il film e alcune vicende di cronaca, Cogne su tutte. C’è una villetta, una madre sola, un istinto prepotente di amore/odio, una corsa al pronto soccorso con il bambino tra le braccia. Toni cupi da thriller. «No, Cogne non c’entra niente», spiega la Comencini. «Ogni madre lo sa, a tutte è capitato di avere momenti di solitudine, istinti che fai fatica a controllare e ad ammettere soprattutto a te stessa. Però penso che oggi abbiamo rotto un tabù raccontandolo. I tabù, si sa, provocano la ridarella nervosa», scherza la regista che ci trova un legame con ''La bestia nel cuore''. «Mi ha sempre interessato quel limite tra sentimento normale e devianza, che è al centro di tutte e due le storie. Marina ama suo figlio, ma lui le ha cambiato la vita: è divisa da un sentimento ambivalente che la soffoca. Il senso materno non esiste in astratto, è un capello sotto cui si nascondono le difficoltà. È qualcosa che si impara: inizia come limitazione della propria libertà e si evolve nell’accettazione di un altro essere». Negare tutto questo, dice, sarebbe peggio. «Quando infatti riesce ad ammetterlo, lei è salva».
S.Ulivi - Corriere della Sera - Settembre 2011
Nessun commento:
Posta un commento